Avv. Federica De Stefani- La difesa del medico- Officina del Diritto- Giuffrè Editore- 2014.
“L’istituto del c.d. consenso informato rappresenta uno strumento per il rispetto della libertà del singolo individuo che, reso edotto in maniera precisa e completa delle modalità di esecuzione e dei rischi connessi ad un determinato intervento medico, può valutare le varie alternative che gli si prospettano non solo scegliendo la tipologia di trattamento cui sottoporsi, ma anche la possibilità di interrompere o di rifiutare la terapia.
Il consenso del paziente mira dunque ad impedire che il medico si sostituisca nella decisione dell’an, del quomodo e del quando di una determinata terapia al fine di perseguire la guarigione o il miglioramento dello stato di salute.
A tal riguardo, infatti, si deve sottolineare come l’evoluzione del rapporto medico-paziente, anche dovuto ad una diversa lettura dei diritti coinvolti in campo medico, abbia portato un diverso inquadramento delle posizioni.
Se infatti in passato (e si parla di alcuni decenni or sono) il paziente era soggetto piuttosto passivo rispetto alle scelte operate dal medico, sul presupposto che il sanitario era titolare di conoscenze specifiche e diverse da quelle di tutti gli altri che lo legittimavano ad operare liberamente, comunque nl pieno rispetto della salute del paziente, la scelta relativa al trattamento sanitario da adottare, attualmente la situazione è radicalmente cambiata.
Il paziente, infatti, è l’unico soggetto legittimato ad assumere le decisioni inerenti alla propria salute.
Il compito principale del medico, dunque, è quello di informare il paziente su tutto ciò che lo riguarda, sullo scopo e sulla natura dell’intervento cui deve essere sottoposto, nonché sulle sue conseguenze e i suoi rischi.
Solo nell’ipotesi in cui il paziente venga informato adeguatamente la decisione terapeutica potrà dirsi partecipata e non subita, mandando esente quindi il medico da eventuali responsabilità (ovviamente legate al mancato consenso informato).
Da rilevare in ogni caso che il diritto all’autodeterminazione non coincide con il diritto alla salute, anzi se ne diversifica in maniera sostanziale.
Se da un lato, quindi, non può escludersi che il mancato consenso possa avere dei riflessi sulle persone, dall’altro lato la mancanza in questione non può produrre ipso facto una responsabilità del sanitario intervenuto.
E’ infatti possibile che la mancanza del consenso – e quindi la violazione del diritto all’autodeterminazione – non comporti alcuna lesione della salute così come accade nelle ipotesi in cui l’intervento comporti un esito del tutto positivo.
Il consenso informato, o meglio l’obbligo di ottenere dal paziente un consenso informato, è un’obbligazione di natura contrattuale, collegata alla prestazione sanitaria, sebbene distinta ed autonoma rispetto ad essa.
Laddove, quindi, il sanitario abbia omesso di informare il paziente in maniera adeguata – indipendentemente dall’esito positivo o meno dell’intervento – egli sarà responsabile per violazione di un obbligo contrattuale per avere il medico impedito al paziente con la sua condotta di sottoporsi al trattamento con una volontà consapevole delle sue implicazioni.
In ogni caso, nell’ipotesi in cui vi sia la mancanza del consenso, ma l’intervento abbia comportato il risultato positivo della guarigione del paziente, il medico non sarà tenuto ad alcun risarcimento per carenza del danno (la guarigione, infatti, del paziente impedisce che venga a realizzarsi quel danno alla salute che imporrebbe in capo al medico l’onere risarcitorio).
Se, come detto, il diritto all’autodeterminazione che sta alla base del consenso informato non può mai identificarsi con il diritto alla salute, esso trova comunque fondamento nella Carta Costituzionale ed in particolare negli artt. 13 e 32 in base ai quali la libertà personale è inviolabile e nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (così testualmente Corte Cost. 438/2008).
I casi, infatti, in cui il soggetto debba essere sottoposto al trattamento sanitario indipendentemente dalla sua volontà sono unicamente quelli previsti dalla legge come ad esempio nell’ipotesi in cui il soggetto non sia in condizione di prestare il proprio consenso o si rifiuti di prestarlo e l’intervento sia urgente e non differibile al fine di scongiurare l’evento morte o un grave pregiudizio per la salute.
Per quanto attiene alla prima ipotesi, ossia quella di trattamenti sanitari obbligatori, a parte la previsione per i soggetti che non si sottopongono al trattamento di responsabilità di carattere penale, il medico è legittimato a presentare la propria attività anche contro la volontà del paziente, e quindi in totale carenza di consenso, senza incorrere in alcun tipo di responsabilità per violazione dell’obbligo di raccogliere appunto il consenso del paziente.
Nella diversa ipotesi in cui, invece, il paziente non sia in condizione di prestare consenso o si rifiuti di prestarlo e il trattamento sanitario non sia differibile al fine di salvarlo la Convenzione di Oviedo prevede, in una sorta di parallelo con il codice di deontologia medica (art.35) che il medico deve prestare l’assistenza e le cure necessarie per salvare la vita del soggetto che in quel momento non possa validamente esprimere il proprio consenso.
Tali principi vengono frequentemente applicati nelle ipotesi di emotrasfusioni da parte di pazienti testimoni di Geova.
In questi casi il medico, anche a fronte di un rifiuto alla trasfusione manifestato dal paziente prima dell’intervento, potrà procedere con la trasfusione stessa nell’ipotesi in cui durante l’intervento stesso si verifichi un mutamento delle condizioni generali ed il paziente sia in pericolo di vita.
A tal riguardo, infatti, bisogna sottolineare come il dovere del medico di salvaguardare la vita e la salute del paziente diventi per così dire aspetto preminente e sovraordinato rispetto al diritto di autodeterminazione del medesimo paziente.
In tal senso Cass. 23.02.2007 n. 4211 secondo la quale in tema di rifiuto di determinate terapie, pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente.
Con riferimento al consenso informato ed alla sua validità rappresentano un aspetto di fondamentale importanza le modalità con le quali il medico raccoglie il consenso del paziente, costituendo le stesse un parametro importante per valutare la diligenza del professionista.
Se infatti, come già anticipato, il consenso informato è oggetto di uno specifico obbligo di natura contrattuale che fa capo al sanitario, le modalità con le quali il medico rende edotto il paziente devono essere valutate per verificare se lo stesso sia stato o meno adempiente.
Quali sono i limiti dell’obbligo di informazione?
Il sanitario è tenuto ad informare adeguatamente il paziente in relazione al trattamento sanitario cui lo stesso verrà sottoposto.
L’informazione deve riguardare le modalità di intervento, le possibili alternative, i benefici ed i rischi connesso all’intervento stesso, nonché alla fase post operatoria.
In tutti questi adempimenti il medico è in ogni caso tenuto a fornire informazioni relative a rischi e complicanze prevedibili e non connesse al caso fortuito o a mutamenti del quadro clinico non preventivabili.
La finalità è senza dubbio quella di informare il paziente di quali conseguenze possono derivare dal trattamento, nell’ottica da accettare che si verifichino situazioni tali da comportare la possibilità di un risultato negativo dell’intervento medico.
In altre parole il paziente deve essere consapevole del fatto che l’intervento non solo potrebbe non risultare positivo (e non portarlo alla guarigione), ma potrebbe implicare anche conseguenze ulteriori con peggioramento della situazione generale del paziente stesso.
Quest’ultimo, infatti, è titolare di un diritto di scelta (la c.d. autodeterminazione) che ben può essere in conflitto con il diritto alla salute, ma poiché entrambi i diritti fano capo al medesimo soggetto, la scelta di quale sacrificare tra i due spetta unicamente al paziente, rimanendo il medico non solo del tutto estraneo a tale procedimento, ma non potendo in alcun modo intervenire, se non nelle ipotesi in cui il trattamento sanitario sia obbligatorio per legge.
Non può però sottacersi il fatto che la necessità di una tale specifica e dettagliata informazione possa in qualche modo irrigidire il paziente che, allarmato dai possibili esiti negativi, decida di non sottoporsi all’intervento o alla terapia.
E compito quindi del sanitario adottare tutte le cautele necessarie affinchè, a fronte della corretta e completa informazione, il paziente possa liberamente decidere senza venire per così dire eccessivamente condizionato dai rischi connessi alla prestazione sanitaria, posto che, come vedremo, non esistono trattamenti con rischio nullo, comportando pur sempre un margine di rischio, anche i così detti interventi di routine.
In sostanza il medico, oltre al dovere di utilizzare modalità di volta in volta diverse che garantiscano al paziente la piena comprensione di quanto gli viene riferito, dovrà spiegare la rischiosità del trattamento o dell’intervento in modo tale da non creare ingiustificati allarmismi o paure che possano, come detto, condizionare negativamente la decisione del paziente.
Da rilevare, in ogni caso, che il consenso informato non è rivolto a garantire la corretta esecuzione della terapia, ma unicamente a garantire al paziente la scelta della stessa.
In altre parole al paziente deve essere garantita quella informazione che gli consenta di decidere se sottoporsi o meno ad una determinata terapia, quale tipologia di intervento scegliere tra più opzioni (se sussistenti) offertegli e quando, nonché dove sottoporsi alle cure mediche, effettuando così lui stesso quel bilanciamento di interessi tra diritto alla salute e diritto di autodeterminazione che il nostro sistema giuridico tutela e gli consente di effettuare.
Nel caso dunque in cui difetti il consenso informato ai fini risarcitori si dovrà indagare sulla circostanza relativa al fatto che il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (in tema di malformazione del feto vedi oltre cap. 3).
Al di fuori delle ipotesi in cui il trattamento sanitario sia obbligatorio ex lege, la mancanza del consenso informato (o la sua invalidità) determina l’arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, posto che, lo si ribadisce, il consenso informato rappresenta la conditicio sine qua non della legittimità del trattamento medico non essendo il sanitario titolare di alcun diritto di curare.
Nel caso in cui manchi il presupposto del consenso informato il sanitario intervenuto risponderà, come visto, solo nell’ipotesi in cui si verifichino delle complicanze negative a danno del paziente.
E’ da precisare in ogni caso che qualora le complicanze dovessero sorgere senza alcun tipo di colpa da parte del sanitario, perché dovute a fattori terzi non prevedibili e non preventivabili, lo stesso non sarebbe tenuto ad alcun risarcimento sotto l’aspetto del difetto di informazione, salva l’ipotesi di responsabilità per aver mal diagnosticato o mal operato, ipotesi queste in cui si tratta di responsabilità ad altro titolo.
Diversa l’ipotesi, invece, di difetto di informazione associata all’insorgenza di conseguenze negative.
In questi casi può verificarsi, nel paziente, una manifestazione di turbamento, la cui intensità varia a seconda delle conseguenze verificatesi e non preventivamente prospettate come possibili.
Come rilevato dalle Sezioni Unite della Cassazione, il sanitario quindi potrà essere chiamato a risarcire tale danno non patrimoniale, conseguenza diretta del mancato rispetto dell’obbligo di informare il paziente, il quale se fosse stato adeguatamente informato avrebbe anche accettato, anche a livello psicologico, la possibilità di esiti diversi da quello sperato.
Il risarcimento, però, non consegue automaticamente alla violazione del dovere di informazione, ma deriva unicamente da un’offesa del diritto che superi una soglia minima di tollerabilità (secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale di un determinato momento storico).
Non risulteranno quindi risarcibili, sempre secondo l’impostazione delle Sezioni Unite, i disagi, i fastidi, i disappunti e le ansie che ciascuno conduce nel contesto sociale. (cfr. Cass. 11.11.2008 n. 26972).”