La responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie è attualmente disciplinata dalla c.d. legge Balduzzi (d. l. n. 158/2012 conv. in L. 189/2012) secondo la quale il medico risponde per responsabilità extracontrattuale e, nello specifico, per responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.
Nell’ambito dell’esercizio dell’attività medica occorre, però, distinguere la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria da quella di cui è chiamato a rispondere il singolo medico che ha posto in essere la condotta colposa causa di pregiudizio per il paziente; a tal fine occorre fare riferimento al c.d. contratto di spedalità, un contratto che si conclude tra il paziente e la struttura con il quale la stessa si obbliga a fornire al paziente un servizio complesso, costituito dalla prestazione delle cure mediche e chirurgiche ma anche da una serie di altri servizi accessori che vanno dalla messa a disposizione del personale medico e ausiliario e di quello paramedico a quelle c.d. “alberghiere”.
La responsabilità della struttura nei confronti del paziente ha, quindi, natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, sussistendo, comunque, un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale.
Nello specifico, la giurisprudenza è, infatti, intervenuta sul punto (Cass. civ. Sez. III 13.04.2007 n. 8826) riconducendo la responsabilità della struttura per il comportamento dei medici che operano al suo interno all’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi; posizione ripresa dalla Cassazione civile sez. III 27/03/2015 n. 6243, che specifica che affinché possa operare l’art. 1228 cod. civ. non è fondamentale la natura del rapporto che lega il debitore all’ausiliario, e quindi, in questo caso, il medico alla struttura, quanto piuttosto la circostanza che la struttura in ogni caso si avvale dell’opera del terzo nell’attuazione della sua obbligazione, ponendo tale opera a disposizione del paziente, per cui la stessa risulta, così, inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio (Cass., 26 maggio 2011, n. 11590). La responsabilità di chi si avvale dell’esercizio dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova allora radice non già in una colpa in eligendo degli ausiliari o in vigilando circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione: “sul principio cuius commoda, cuius et incommoda, o, più precisamente, dell’appropriazione o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino” (così Cass., 6 giugno 2014, n. 12833). Quanto, poi, alla natura della responsabilità del medico convenzionato o che lavora nella struttura, nei confronti dell’utente, con il quale non sussiste alcun vincolo negoziale od obbligatorio ex lege preesistente all’espletamento in concreto della prestazione curativa, è sufficiente osservare che essa è da ricondursi al “contatto sociale”, tenuto conto dell’affidamento che egli crea per il fatto di essere stato prescelto per rendere l’assistenza sanitaria dovuta e sulla base di una professione protetta. La sua prestazione (e conseguentemente il contenuto della sua responsabilità) per quanto non derivante da contratto, ma da altra fonte (art. 1173 cod. civ.), ha un contenuto contrattuale.
La struttura è altresì responsabile direttamente ex art. 1218 c.c. per i danni derivanti da disfunzioni dell’organizzazione: si ritiene che la responsabilità contrattuale della struttura per inefficienza dei servizi e delle attrezzature si basi sul dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza e della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.); occorre, quindi, che la struttura sanitaria dia la sicurezza di uno standard organizzativo tollerabile corrispondente a quello che il paziente di buona fede può ragionevolmente attendersi e che può prevedere tenuto conto di una serie di circostanze quali il luogo, il tempo, e le altre strutture ospedaliere affini.
Nel momento in cui si debba individuare la responsabilità a fronte di un danno provocato a seguito di un intervento medico del paziente, le posizioni del medico e della struttura dovranno essere, dunque, valutate e trattate separatamente.
A tal proposito, la giurisprudenza ha, di recente, ribadito, sulla scia di passate pronunce (da ultimo: Cass. n. 20547 del 30/09/2014) che, nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico-chirurgica, l’attore danneggiato ha l’onere di provare esclusivamente l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, nonché di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; resta, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. (Cassazione civile sez. III, 26/06/2015, n. 13223)
Da tenere in considerazione, inoltre, che, laddove la causa del danno rimanga ignota, le conseguenze non possono ricadere esclusivamente sul del danneggiato, ma gravano sul presunto responsabile che non sia riuscito a fornire la prova liberatoria (nel caso, il medico e/o la struttura sanitaria), sulla base del principio di generale favor per il danneggiato, nonché nella rilevanza che assume al riguardo il principio della colpa obiettiva, quale violazione della misura dello sforzo in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione dovuta arrechi danno (anche) a terzi. (Cassazione civile sez. III, 06/05/2015, n. 8989).